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Una terrazza immensa sospesa tra cielo e mare, aggettante sopra un tappeto verde di vigne, complemento ed arredo di una casa che sapeva di tempo passato, di antiche villeggiature, di vita scandita dal monotono susseguirsi delle stagioni negli anni.”

Tutto viene dalla memoria di una Vecchia Sicilia, da una meditazione continua sulla sicilianità, da un ricordo letterario che ondeggia nel limbo dell’immaginazione. La scrittura dell’autore è veloce, fluida, coinvolgente. Il lettore si integra facilmente nell’incertezza dei sogni e delle premonizioni dei personaggi narrati. Sullo sfondo di una Sicilia rivoluzionaria, il presagio del colera e il desiderio di un uomo che preferisce morire abbandonato, senza soccorsi, senza conforti.. nella Stanza dello Scirocco. Un racconto inedito di Un Uomo Libero.

Socrathe


LA STANZA DELLO SCIROCCO

 di Un Uomo Libero

Un giorno di agosto, bianco già dal levar del sole, che quasi sembrava una iattura. Le mosche noiose più del solito segnalavano l’uva matura e le vigne con i pampini lucidi occultavano dentro ombre e penombre grossi grappoli d’oro. Laggiù, in lontananza, un filo di fumo si levava dalla mulattiera, ma era solo una nuvola di polvere bianca. Si perdeva nel cielo del mattino, nell’azzurro lontano, dalla  tenue tinta pastello, di un mare che sembrava dipinto.

-Tempo di scirocco!- Sentenziò con la sua voce grave, aspra, di vecchio, don Clemente, mentre annusava l’aroma di una tazza di caffè che il servo gli aveva posato sopra un tavolino rotondo in terrazza.

Una terrazza immensa sospesa tra cielo e mare, aggettante sopra un tappeto verde di vigne, complemento ed arredo di una casa che sapeva di tempo passato, di antiche villeggiature, di vita scandita dal monotono susseguirsi delle stagioni negli anni.

-Già!- Rispose asciutta e parsimoniosa donna Ines.

Già. I suoi pensieri volavano verso posti lontani, liberi come il vento africano che si apprestava a bruciare la terra, ardenti come il fuoco che si sentiva nell’aria, imminente, implacabile. Don Clemente, con flemma, stipò di tabacco la pipa e lasciò che si dondolasse a lungo così, carica, fra le sue labbra rugose.

-Questo tempo è il migliore alleato del colera!- Esclamò. Pareva che parlasse a qualcuno. Ma solo il cielo lo udiva e gli uccelli che svolazzavano fra gli alberi del giardino in cerca dell’ombra. Donna Ines, da un pezzo, si era lasciata cadere su una vecchia poltrona di vimini, fra cuscini e cuscini, gli occhi socchiusi, le labbra strette e asciutte, le mani nervosamente inquiete, i capelli bianchi e radi su una fronte marcata dal dolore del lutto. La sua mente era altrove. Le cicale cominciarono a frinire sempre più forte ed il fumo lontano della carrozza sembrava un tornado che, lento, si avvicinava alla villa per inghiottirla. Minaccioso, inesorabile. Il servo raccolse la tazza vuota e scomparve dietro le bianche vetrate del salone.

-Quali nuove porterà la carrozza?- S’interrogò don Clemente. Nessuno gli rispose, quasi che l’aria immobile si ostinasse nel custodire un segreto. -Mínicu!- Chiamò a gran voce, nervoso, dopo una pausa lunga, pensata. -Mínicu!- Rinforzò collerico il suo grido.

-Voscenza…- Il servo apparve. Si materializzò come un fantasma di là della bianca vetrata, lo sguardo basso, il tono di voce dimesso. Lugubre e rassegnato ad un tempo, anche lui molto avanti negli anni. -Voscenza cumannàssi!-

-Dov’eri, dove ti eri cacciato?- Gli domandò don Clemente. La sua voce aveva acquistato un tono pacato di rimprovero dolce.

-Voscenza, a villa è grandi e ju sugnu sulu…in cucina ero.-

-Ah!- Si acquietò come un bimbo a cui si dà in bocca il suo ciuccio. Lo guardò di sottecchi, con tenerezza. Ora già gli occhi mettevano a fuoco con più interesse la pipa.

-Cumannàssi!- Gli chiese con molta pazienza il servo.

-A stanza ro sciroccu…a stanza…pripàrala, prestu, prima ca stu tiempu ni brucia…na frevi mi sientu, ca m’abbampa…ca mi trasa nall’ossa e mi cunsuma!-

-Vossìa nun dùbiti!- Rispose Mínicu e si rivolse alla donna.- A barunissa avi cumànni?..-

-No! Fa chiddu ca ti urdinàu u baruni.- Rispose, con gli occhi sempre chiusi, la donna.

Mínicu si allontanò col suo passo cadenzato e stanco. Scomparve dietro la grande vetrata. La carrozza non era più un punto nero nella polvere bianca. Si distinguevano i cavalli, il monsù che li bacchettava a cassetta.

-Chi sarà?- Si chiese, risvegliandosi da un lunghissimo sonno, la donna, indicandola, con un gesto della mano, al marito.

-Nessuno! Non aspettiamo nessuno, noi!- Tagliò corto, visibilmente contrariato l’uomo. La sua voce, però, svelava il timore di una pena segreta, di una novità che aspettava con ansia e paura.

-Per venire a trovarci sarà qualcuno dei nostri, qualcuno che ci conosce e ci fa visita.- Argomentò lei.

-Nessuno!- Ripeté, turbato, tra i denti, l’uomo. -Nessuno è mai venuto fin qui che ci facesse piacere o bisogno, chi aspettavamo davvero, da tanto tempo, si fa attendere e tarda…-

-Che senso ha morire ora?- Gli fece eco la donna. -La morte, oramai, non da più sollievo, ci inganna! Avrei voluto morire con lui, fra le barricate, in quel giorno di maggio. Lì, dove lo colpì la bombarda…lui, la mia speranza, la mia stessa vita, l’alito stesso della mia anima…né questa mano poté comporre il corpo squarciato, né i suoi occhi poterono portarsi, per ultimo ricordo, le lacrime della madre…le mie lacrime! La sua giovinezza fu preziosa moneta di scambio, un prezzo di sangue che una terra nobile e antica pagò ad un nemico sconosciuto, uno dei tanti che nella sua storia la depredò, la soggiogò e la distrusse!- Con la mano tremante strinse forte, quasi a volerselo strappare dal collo, un medaglione d’oro dentro il quale custodiva, in miniatura, il volto giovane del figlio caduto, anni prima, nei combattimenti di Palermo. Il seno sussultò per un singhiozzo e la seta nera del corpetto luccicò nella luce del giorno, inumidita di vecchie lacrime. L’uomo taceva. Aguzzò gli occhi e vide che un drappo giallo sventolava sul tetto della carrozza.

-Forse questa sarà la nostra ultima estate…- Mormorò e la sua fu una riflessione ad alta voce.

-Perché dici questo?- Gli domandò lei.

-Un presentimento, il senso che tutto potrebbe finire domani già…un sogno, stanotte, lui, ancora bambino, quando lo portavo a caccia sul mio cavallo bianco, stretto fortemente alla mia cintura non per paura ma per un tenero abbraccio…- La sua voce diventò dolce, straordinariamente dolce, quasi di pianto.

La carrozza imboccò lo stradale bianco che conduceva dritto dritto alla casina. Don Clemente si alzò con fatica, cominciò a scendere, andandole incontro, per la scalinata di pietra che raccordava la terrazza al grande piano del baglio. Due cavalli scalpitanti si fermarono davanti ad essa. Si aprì la porticina e discese un uomo minuto, vestito di bianco lino, il cappello di paglia in una mano, un occhialino d’oro incastrato tra lo zigomo e il ciglio.

-Baciamo le mani, signor barone!- Gridò, rivolgendosi a don Clemente che si era fermato a metà scalinata, ansimando come un mantice d’organo sfiatato. Col cappello, frettolosamente, l’uomo si produsse in un inchino compassato, servile. -Baciamo le mani!- Ripeté con voce più forte.- E rispetti alla signora baronessa!-

Don Clemente portò una mano agli occhi per distinguerlo meglio nella calura polverosa di agosto.

-Ah, Eccellenza!- Esclamò con sorpresa, quando fu certo della sua identità. -A che cosa dobbiamo la sua visita?-

– Una preghiera…una necessità…una carità di Dio, se volete, o un’emergenza…- Gridò ancora, con grande affanno nella voce, il sindaco del paese. -Il colera…il colera impazza già in tutti i centri vicini. A Siracusa da mesi miete uomini come spighe, da noi è di nuovo comparso, si respira nell’aria; nelle strade deserte, nelle piazze e nelle case solo pianti e lamenti, un contagio dietro l’altro…Abbiamo ricevuto ordini dal governo del re di requisire, requisire palazzi, agrumeti, orti….Con un dispaccio, telegrafato nel primo mattino, mi hanno annunciato che arriveranno truppe da Modica stasera per montare casini di quarantena. Si accamperanno per questa notte fuori dell’abitato, al piano, all’addiaccio. L’ospedale già scoppia. Non si trovano limoni per le cure. Il suo palazzo, con le sue stanze e stanze, potrebbe accogliere i malati che in ospedale non trovano più posto, quanti vengono pietosamente in nostro aiuto…Potevo far gridare un bando, ma la rapidità con cui si è diffuso il contagio, il tempo così afoso e nemico, l’urgenza del comando ricevuto e poi, la sua posizione, il suo prestigio mi imponevano, come di fatto mi sono imposto, di informarvi personalmente, di supplicarvi in ginocchio più che in nome di Dio o del governo del re, in nome di quel figlio che avete sacrificato alla giovane Patria…-

Don Clemente rimase impassibile, muto. Muta rimase in piedi, al centro della grande terrazza, la baronessa. Ci furono lunghi attimi di silenzio. La donna ripeteva fra sé e sé le ultime parole del sindaco sul figlio: “per quel figlio che avete sacrificato alla giovane Patria”  e si chiedeva a quale giovane patria egli alludesse, se le cose erano rimaste esattamente come erano prima e, con l’arrivo dei piemontesi, tutto addirittura era peggiorato: perché  solo il padrone era cambiato  in quella Sicilia povera e malata. D’un tratto la baronessa parve risvegliarsi da un sonno profondo, cominciò a scendere i gradoni della scalinata e si approssimò al sindaco.

-Devo firmarvi delle carte? – Chiese, quando gli fu di fronte.

-Ho portato con me le lettere di esproprio temporaneo…- Balbettò, sorpreso da tanta disponibilità e in soggezione, il sindaco.

-Prendetele, Eccellenza, il palazzo è mio, mio marito non c’entra…e mio figlio non ha dato la sua vita per una patria bensì per un sogno, un sogno che mai potrà avverarsi: la libertà della sua isola! Perché noi, siciliani, cara Eccellenza, siamo gente strana, nasciamo con la vocazione ad essere servi, degli dèi un tempo, di uomini mediocri oggi!-

-Si!- Accondiscese a mezza voce il sindaco. Prelevò dalla carrozza un astuccio di cartone che conteneva delle carte arrotolate. La baronessa le lesse poi cominciò a firmare senza dire una parola, mentre l’uomo pronunciava parole sconnesse, ringraziamenti infiniti, benedizioni e giaculatorie di santi. Quando terminò di firmare, si avviò malinconicamente verso la scalinata per salire alla terrazza della villa.

-Ah!- Disse, fermandosi, dopo qualche gradino.

-Dica!- Esclamò premuroso, con voce ossequiosa, il sindaco.

-Per la chiave, rivolgetevi al servo custode. Ammassate ogni cosa, le suppellettili, i quadri nei magazzini del grano, poi, quando avrete finito, mandate qualcuno alla villa, una carrozza…qualcuno che ci informi, insomma!-

-Perché?- Chiese stupito il sindaco. –Non dubiti! Io personalmente vigilerò che nessuno derubi…-

-Non mi preoccupano i ladri…il tesoro, quello vero, già me l’hanno portato via in un giorno di maggio di alcuni anni fa…- La baronessa ebbe un attimo di esitazione. -Che ci informi, qualcuno, della situazione sanitaria in paese, questo solo mi preoccupa.- Precisò poi con prontezza ma anche con una struggente malinconia.

Il sindaco la salutò, salutò il barone e, dopo un’ultima scappellata, saltò dentro la carrozza che ripartì veloce lasciando nel baglio una nuvola di polvere bianca. La bandiera gialla della quarantena fendeva sinistra l’azzurro sfumato del cielo. Il barone la guardava con occhi lucidi e rossi.

-No!- Sussurrò lei, raggiungendolo sulla scalinata, toccandogli la fronte. –No! Questo caldo che senti non é lo scirocco, non é l’aria ferma che precede il vento caldo africano, é il colera che già ci ha raggiunto e che, presto, mieterà anche le nostre ormai inutili vite…-

L’uomo non disse niente. Si aggrappò al suo braccio ed ebbe un sussulto, come se stesse per lasciarsi cadere. A fatica raggiunse la terrazza.

-Voscenza, a stanza é pronti!- Gli gridò Mínicu. Lui lo guardò a lungo, lo sguardo perso nel  vuoto, senza sapergli rispondere.

-Si, Mínicu!- Rispose la baronessa. –Aiutami a dargli il braccio, portiamolo nella stanza dello scirocco e mettiamolo a letto. L’aspetteremo là, finalmente, con coraggio, la morte che verrà, come in una piaga biblica, per redimerci o annullarci.

Un Uomo Libero

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